L’umanissima lezione di un grande pianista

L’umanissima lezione di un grande pianista

Giovanni Allevi ha raccontato sul palco di Sanremo la sua malattia e la sua rinascita. Ha parlato del Male e di quanto il tempo della prova sia stato anche un tempo di inediti doni 

Longuelo Comunità, EDITORIALE febbraio 2024

Sanremo è sempre un enorme carrozzone. Confessiamo apertamente – chi più, chi meno – di non averlo visto, anche se poi di nascosto sbirciamo i social per vedere cosa è successo, dalle gag dell’istrionico Fiorello ai big che fanno la differenza. Impossibile (?) non parlarne. Sanremo è una grande vetrina: si espongono temoni come si esibisce la propria mercanzia. Impossibile (?) non vederlo. Sia chiaro, io sono un grande fan di Sanremo anche solo perché in quella settimana breve di musica e commedia dell’arte va in scena il meglio e il peggio della nostra Italia e Italietta. Non reggo più le maratone notturne, ma osservo attento al Grande Ostensorio socio-mediatico. Si è parlato di tutto nella città dei fiori, e piuttosto seriamente: di morti sul lavoro (Jannacci-Massini), di maschilismo bianco (Mannino), di pace a Gaza (Dargen e Ramazzotti), di agricoltura (trattori compresi). Ci si è concentrati molto sul ballo del qua-qua di John Travolta (e sulla marca delle sue scarpe) senza dare giusta considerazione alla lezione (filosofica, teologica?) di Giovanni Allevi tornato a suonare sul palco dell’Ariston dopo due anni di malattia. Emozionato com’era, il musicista cinquantaquattrenne ha commosso rivelando al pubblico tutta la sua fragilità e forza. La sua non è stata un’esibizione di eroico dolorismo, ma la testimonianza di un uomo che ha scelto di fare seriamente i conti con il male che quando agguanta alle spalle la vita, tramortisce sempre anche le ragioni del vivere. “Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare”. Ha detto proprio così: speranza e immaginazione, due parole che nella cultura del presentismo suonano come inattuali. Allevi ha continuato con un accostamento audace e coraggioso: “Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni”. Dolore e dono, nulla di più improbabile e di più paradossale: non ha detto che il dolore è un dono ma che l’esperienza della sofferenza può generare qualcosa di inatteso. E infatti occorre immaginazione e speranza per dirlo. Perché mai dovremmo aspettarci il Bene dal Male? Il pianista ha avuto il coraggio di guardare in faccia al grande enigma dell’esistenza umana, quello per cui non ci sono risposte se non il coraggio di viverlo per non cedere alla tentazione che la vita sia una maledizione invece di essere quello che di Allevi, musicista amatissimo in tutto il mondo, non è stato soltanto un intenso monologo, che ha avuto il pregio di richiamare l’attenzione sul grande tabù del secolo tecno-scientifico e prestazional-consumistico: il Male e la Morte. Forse le sue parole – come scrive Danilo Di Matteo – sono state in quella sera parenti strette della preghiera o “una lettera al mondo… scritta all’ombra di Dio, davanti a Lui”. E i doni, dunque? Quali doni, Allevi, ha riconosciuto nella lunga stagione della malattia, dalla quale, però, non è ancora uscito anche se riprenderà a tenere concerti? Per di più riuscire a comporre nuovi brani nel tempo della sofferenza è un altro mistero della vicenda umana. Invece di bestemmiare la vita, si genera. Invece di permettere al male di avvelenare i pozzi della fiducia, lo si converte in sorgente creativa: “Io trasformavo la mia paura, la mia ansia, la paura per il futuro, che le terapie non potessero funzionare, il mio mal di schiena, tutto in note. Che bello che la musica e l’arte siano l’occasione per trasformare la fragilità umana in una forza, una forza avvolgente”. Dicevamo dei doni, dunque: la consapevolezza del valore dell’unicità dell’individuo, la riconoscenza per l’affetto che si riceve dagli altri pazienti, la gratitudine nei confronti di medici e infermieri e della ricerca scientifica, la vicinanza della fa¬miglia, “la gratitudine nei confronti della bellezza del creato” e poi, citando Kant, l’anima “qualcosa che permane ed è ragionevole pensare che permarrà per sempre”. Infine l’ultimo dono: “Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Com’è liberatorio essere se stessi” chiude Allevi togliendosi il berretto di lana e mostrando la sua chioma grigia. Mostrando che si può sempre rimanere vivi.

Il musicista ha commosso rivelando tutta la sua fragilità e forza. la sua non è stata un’esibizione di eroico dolorismo, ma la testimonianza di un uomo che ha scelto di fare i conti con il male.