La messa gospel nella nostra chiesa: quando cantare insieme è tutto

La messa gospel nella nostra chiesa: quando cantare insieme è tutto

L’eucaristia della domenica delle famiglie e delle generazioni è stata animata dagli amici del Rejoice Gospel Choir. È stata una festa. La gioia sprizzava dagli occhi di tutti. Se è così allora anche le nostre messe possono cambiare?

Longuelo Comunità, DIARIO DI UN PARROCO DI PERIFERIA febbraio 2024

Nella primavera-estate del 1997 ebbi la grande fortuna di vivere alcuni mesi negli Stati Uniti: Orlando, Washington, New York. East Coast. Feci appena in tempo a salire sulle Twin Towers. La parrocchia che mi ospitava era in piena Wall Street. Al mattino prestissimo, prima di celebrare con i brokers dai colletti bianchi, mi regalavo mezz’ora di jogging tra l’imponente toro in bronzo, simbolo dello strapotere finanziario americano, e le affusolate torri gemelle. Una pacchia. A quel tempo ero uno studentello della Gregoriana in salsa massmediatica. Quella strepitosa occasione mi permise di incontrare tante persone nel campo della comunicazione. Ero lì per quello. Ma la mia curiosità mi portava in giro anche per musei e musical. Feci una scorpacciata. Il mio pellegrinaggio per le strade della città che non dorme mai mi condusse un pomeriggio all’interno di una black church di denominazione battista. Ero nel tempio della musica gospel ed ero l’unico bianco. Per di più cattolico. E prete. Ricordo come se fosse ieri quando The Brooklyn Tabernacle Choir intonò il salmo 34. Noi europei non siamo abituati a questo genere di celebrazioni dove la musica è tutto perché è essa stessa parola, dove la voce umana presta la voce alla parola divina, dove il corpo è danza. In quella chiesa battista il coro, composto da non ricordo più quante persone, è rigorosamente al centro, e al centro del centro ci sono tutti gli strumenti musicali. Solo dopo, ma molto dopo, appare in scena l’ambone per la lettura della Parola e il sermone che è tutto un rincorrersi di Halleluja e Amen. La liturgia è una festa, sempre, anche quando si deve cantare Oh Happy Days che noi ci ostiniamo a voler ascoltare a Natale mentre in realtà sarebbe un canto penitenziale, quaresimale. Ecco, tutto questo mi è tornato alla memoria quando nella celebrazione della domenica mattina del 28 gennaio gli amici del Rejoice Gospel Choir, già nostri ospiti per l’Immacolata, hanno animato i canti della Giornata delle famiglie, facendoci venir voglia di cantare più di quello che cantiamo, invitandoci a uscire dalla comfort zone delle nostre posture imbalsamate e un po’ troppo ingessate. Il nostro è uno stile liturgico più compassato, sobrio, minimale – da non sottovalutare – ma è indubitabile che l’entusiasmo contagioso del gospel ha lasciato in noi il segno, lasciandoci intuire quello che sappiamo ma che possiamo sottoscrivere a chiare lettere solo perché quella domenica lo abbiamo vissuto in prima persona diventando noi stessi i protagonisti della celebrazione. Siamo figli del canto gregoriano, che comunque rimane qualcosa di tremendamente potente pur nella sua composta essenzialità, ma dobbiamo accogliere la critica rivolta al nostro stile rituale troppo rigido e statico. Qualcuno si trova bene, anzi qualcuno preferisce lo stile quasi “protestante” delle nostre liturgie. Altri invece hanno percepito in quel canto gioioso all’unisono la verità di ciò che li farebbe continuare ad essere – fedelmente – fedeli domenicali. È stata soltanto un’esperienza che ha aperto i polmoni. Non dobbiamo tifare né assolutizzare. Dobbiamo solo renderci conto che la messa domenicale è bella non perché c’è il gospel o il gregoriano (sciocco contrapporre due impareggiabili tradizioni – black & white) ma perché noi siamo i protagonisti della maniera con cui esprimiamo la fede. Non siamo neri d’America, il gospel lo possono fare solo loro. Noi siamo italiani, per di più bergamaschi, e dobbiamo sapere che la celebrazione o è nostra o non è.

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