Eutanasia e accanimento terapeutico hanno lo stesso difetto: pretendere di possedere e dominare la morte

Eutanasia e accanimento terapeutico hanno lo stesso difetto: pretendere di possedere e dominare la morte

Il tema è di quelli spinosi, divide le coscienze, anche dei cattolici, e suscita polveroni politici. Ma una comunità cristiana è chiamata ad affrontarlo, cercando qualche risposta. Abbiamo chiesto a don Maurizio Chiodi, teologo moralista, alcuni criteri per orientarci nel dedalo delle questioni.

La proposta di legge sull’eutanasia legale è sospesa al dibattito parlamentare. Nel frattempo sono state raccolte, e depositate, oltre un milione di firme per chiedere un referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Il tema è di quelli spinosi, complessi, ma non possiamo sottrarci. Ci riguarda. L’eutanasia è un caleidoscopio tematico: la questione etico-culturale, innanzitutto, ma anche quella giuridica dei diritti, e poi ancora quella medico-scientifica e ovviamente anche quella politica. In questi ultimi dieci anni la battaglia si è accesa attorno ai casi più noti come Welby, Emanuela Englaro, Dj Fabo. La redazione ha organizzato un forum con don Maurizio Chiodi, teologo moralista. Insegna a Bergamo, Milano e Roma, e dal 2017, è stato nominato da papa Francesco, come membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita. Gli abbiamo posto alcune domande. Qui ne riportiamo il frutto di quell’incontro. Di eutanasia si è parlato anche al triduo dei defunti.

Prima di approfondire le implicazioni etico-antropologiche del referendum, vorremmo chiarire gli aspetti propriamente giuridici: il quesito referendario, una volta approvato, che cosa comporterebbe e quali sarebbero le differenze rispetto a quanto già stabilito dalla sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale?
La sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale, dopo l’autodenuncia di Marco Cappato, interessa l’articolo 580 del Codice penale, che proibisce l’istigazione o aiuto al suicidio. Nella sentenza la Corte ha mantenuto il reato di aiuto al suicidio, ma in presenza di quattro circostanze ha giudicato incostituzionale l’articolo 580. La presenza contemporanea di queste quattro circostanze depenalizza e rende di conseguenza non punibile l’aiuto al suicidio: 1) la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (la cui sospensione provocherebbe una totale e irreversibile cessazione delle attività necessarie alla vita); 2) si tratta di una persona affetta da una patologia irreversibile; 3) la patologia è fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona trova intollerabili; 4) la persona è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (per cui il proposito del suicidio si è formato autonomamente e liberamente). Il referendum abrogativo chiede invece di modificare parzialmente l’articolo n. 579 del Codice penale, relativo alla proibizione dell’omicidio di “persone consenzienti”. Il quesito referendario, una volta approvato, eliminerebbe infatti il divieto dell’omicidio del consenziente, mantenendo l’eccezione di tre casi, in cui esso rimarrebbe perseguito: l’omicidio del consenziente rimarrebbe punibile se la persona che chiede di essere uccisa sia o minore o inferma di mente (o in condizioni provvisorie di deficienza psichica, come nell’abuso di alcol o stupefacenti) oppure nel caso in cui il consenso sia estorto con violenza o inganno. La (grave) conseguenza del “taglia e incolla” del quesito referendario è che una persona perfettamente sana che, per un qualunque motivo, chiede di essere uccisa da un’altra, può farlo e chi la uccide non può essere condannato. La proposta referendaria va quindi molto al di là dei confini (precisi) stabiliti dalla Corte costituzionale, poiché permette l’omicidio di chiunque lo richieda: da una persona depressa, sentimentalmente delusa, a una toccata da un fallimento finanziario o da una temporanea fragilità psichica e via dicendo.

Andiamo oltre la questione giuridica, qual è la valenza culturale del quesito referendario per il nostro Paese?
Come cattolici siamo di solito troppo preoccupati delle leggi giuridiche, dimenticando che queste leggi sono in realtà parte di una cultura più complessiva (intendendo qui il termine come il sistema complesso dei costumi di un popolo, nei quali la coscienza personale trova il suo primo accesso alla vita buona). È a questo livello che dobbiamo renderci conto che ciò che è cambiato è la cultura, prima e più che la legge. Quindi, il vero nodo della questione non sono le leggi. Ciò che dobbiamo ben comprendere, mettendo in atto analisi più complesse, è il cambiamento culturale. La legge non va né sovradeterminata, come se tutto dipendesse dalla legge, né sotto-determinata, come se la legge non avesse nessun “effetto” sul costume. Da questo sforzo di interpretazione conseguirebbero differenti e più complesse forme di presenza nel dibattito pubblico, di dialogo e di testimonianza.

Come immagina possa, o debba, declinarsi la partecipazione dei cattolici al dibattito pubblico che si svilupperà in vista del possibile voto referendario?
A questo livello, come comunità credente, dovremmo mettere a tema proprio la qualità del linguaggio e del pensiero, che sono inscindibili l’uno dall’altro. Si tratta di sapere e poter entrare nel dibattito pubblico, democratico, con argomenti convincenti, capaci di interessare e stimolare la ricerca e la riflessione di chi ci ascolta intorno alle grandi questioni etiche e antropologiche che sono in gioco in questo referendum. Non farlo significa perdere un’occasione preziosa. La questione riguarda tutti i credenti, ma in particolare alcune categorie maggiormente esposte: i teologi, in primis, che sono deputati a una riflessione critica sul sapere della fede; ma insieme gli educatori, gli insegnanti, i preti, i giornalisti, gli avvocati. La qualità del linguaggio e del pensiero potrebbe suscitare alleanze e sinergie anche con non credenti, o credenti di altre confessioni o religioni, rompendo quel senso di accerchiamento e di isolamento che spesso attanaglia i cristiani nelle questioni etico-antropologiche che una volta, con linguaggio già compromesso, chiamavamo “valori non negoziabili”.

Qual è il rapporto (e il confine) fra eutanasia e accanimento terapeutico? Due termini ricorrenti nel dibattito pubblico, ma dai contorni semantici forse non sempre chiari.
Una prima questione decisiva riguarda la morte, come esperienza radicalmente umana: l’esperienza anticipata di essere-sottratti-a-se-stessi. È questo ciò che è in gioco nella richiesta di eutanasia e nella questione dell’“accanimento terapeutico”. Si tratta di un argomento molto ampio, che qui non possiamo certo esaurire. Mi limito a qualche breve considerazione.

Prego.
Anzitutto vorrei notare che (troppo) spesso noi cristiani diciamo un forte no all’eutanasia, ma non diciamo un no altrettanto chiaro al cosiddetto “accanimento terapeutico”. Affrontare la questione dell’accanimento – che la legge 219 del 2017 chiama “ostinazione irragionevole” – significherebbe infatti essere disposti a riconoscere che ci sono situazioni in cui non è facile distinguere in astratto e in assoluto quando si sta decidendo di sospendere terapie ritenute sproporzionate (che non è eutanasia) e quando invece si sta decidendo di praticare l’eutanasia. A volte uno stesso atto potrebbe essere eutanasico e a volte no (come quando, ad esempio, la sospensione delle terapie non è motivata dalla sproporzione del dispositivo medico), perché dipende dai soggetti in relazione, dalle situazioni e dalle circostanze.

Questo richiederebbe di affrontare il tema della proporzionalità delle terapie.
Sì, rispondendo proprio alla domanda: in che misura le cure (to cure: apportare delle cure tecniche) sono forma della cura (to care: prendersi cura)? La risposta a questo interrogativo, com’è noto, richiede di articolare nello stesso tempo quattro profili, inscindibilmente legati l’uno all’altro. Una cura è infatti proporzionata nella misura in cui assicura: a) un maggiore e migliore tempo di vita – non solo quantitativo (chronos) ma soprattutto qualitativo (kairos); b) la proporzione tra i danni e i benefici della/e terapia/e medica/che, ivi inclusa la terapia del dolore; c) la possibilità di una buona relazione con i familiari, gli amici, l’équipe sanitaria, i volontari, il cappellano; d) la sostenibilità economica della terapia, considerando le risorse (limitate) a disposizione per tutti. È evidente che questo giudizio richiede un discernimento concreto, a partire dalla situazione, passando attraverso i criteri normativi enunciati, per giungere alla decisione concreta, che spetta al paziente, in dialogo con i sanitari e la sua famiglia. L’eutanasia e l’accanimento hanno lo stesso difetto: essi pretendono di possedere e dominare la morte, tenendola sotto controllo, come se essa fosse totalmente e indiscriminatamente in nostro potere. In questo modo noi perdiamo il carattere di passività e di alterità che è inscritto in questo evento del vivere. Noi non possiamo decidere se morire o no, ma dobbiamo decidere come morire e dunque come disporre di questo evento che ci tocca in modo radicale. Si apre qui la necessità di elaborare una riflessione non banale (esistenziale) sul tema della morte. Come credenti, la morte rimane alterità, passività, “scacco” e dramma, ma l’annuncio del Vangelo e la fede nel Crocifisso Risorto aprono a una speranza che eccede le possibilità umane, dischiudendo un dono che, solo a posteriori, noi riconosciamo come il compimento della nostra attesa.

Oggi si reclama il diritto, per certi versi assoluto, alla libertà individuale. Anche il dibattito sul fine vita sembra permeato e sostenuto dalla stessa rivendicazione. Quali riflessioni possiamo fare in proposito?
Nelle idee e nel costume di moltissimi la libertà coincide con l’assoluta autodeterminazione. Ma la libertà è proprio questa?

Che cos’è allora la libertà?
La libertà umana, questo è il nodo della questione, non è creatrice in modo assoluto e indiscriminato, ma ha un carattere costitutivamente responsabile o responsivo: la sua “creatività” sta nel rispondere, decidendo di sé a partire dalle esperienze del bene e dai legami che ci sono “dati” nella vita. In queste esperienze del bene (che ci costituiscono nella nostra identità umana e sono originariamente relazionali) il cristiano riconosce il darsi della grazia stessa di Dio. La libertà come assoluta autodeterminazione è anche un’idea (molto) individualista e riduttiva. In questo modo non si riconosce che la nostra libertà è in relazione costitutiva con l’altro da sé: è una libertà responsabile. L’altro non è il mio limite, ma colui senza il quale io non sarei me stesso. Basterebbe pensare che la prima parola dell’essere umano è una parola che risponde all’altra/o che si prende cura di lui/lei, chiamandolo a rispondere.

C’è anche un livello politico nel dibattito.
Sì, infatti, il discorso tocca proprio la dimensione politica: la democrazia fa riferimento al demos, un popolo, e dunque ai rapporti tra le libertà coinvolte in relazione tra loro. La democrazia, dunque, suppone soggetti liberi, ma egualmente suppone che essi siano un popolo, una comunità, appunto, di soggetti liberi. Dimenticare questo aspetto istituzionale e comunitario significa rischiare di estenuare dall’interno il principio della democrazia, svuotandola delle relazioni che invece le sono costitutive.

Che significato assumono nella fede cristiana il dolore e la sofferenza del malato, anche o soprattutto nelle fasi finali di aggravamento della malattia?
Nella storia del cristianesimo abbiamo due linee di fondo. Da una parte la risposta al dolore e alla sofferenza è stata la cura, che ha rappresentato storicamente il cambiamento dalla medicina della tradizione greca (nell’antichità il medico abbandonava il paziente grave non più “guaribile”, perché la morte significava per il medico una sconfitta) alla medicina cristiana, centrata appunto sulla cura. L’enigma del dolore richiede la testimonianza della cura e questo testimoniano i miracoli di Gesù: quasi tutti i suoi miracoli sono gesti di cura. C’è poi un altro filone, quello del dolorismo: una specie di compiacimento nel dolore, collegato ad un certo disprezzo per ciò che è caduco e provvisorio, il corpo. Di qui l’esaltazione della sofferenza, del sacrificio fine a se stesso. Dobbiamo riconoscere questo secondo approccio al dolore, ma anche contestualizzarlo nei tempi in cui si realizzava. Esso non è stato solo dei cattolici, è stato di tutti: dei protestanti, dei riformati. È stato un eccesso forse legato alla consapevolezza che la pienezza della vita qui è soltanto in spe, in speranza.

Qual è la nostra responsabilità di fronte a chi soffre e magari è passato improvvisamente da una vita iper-attiva all’assoluta inattività o immobilità a causa della malattia o dell’infortunio?
L’accompagnamento di chi soffre è un’arte, che fa parte dell’arte della cura. L’accompagnamento significa ascoltare l’altro lasciandosi istruire, soccorrerlo, sostenerlo, accogliere anche i suoi silenzi. Dietro o a fianco della domanda “fammi morire” c’è spesso la richiesta “non lasciarmi solo, stammi accanto”. Da questo punto di vista le cure palliative sono una risposta con cui la medicina ha cercato di superare un difetto tecnicistico, troppo scientifico, facendosi carico del paziente. Non a caso le cure palliative nascono da un’infermiera (poi diventata anche medico), che aveva cominciato la sua missione prendendosi cura dei pazienti, nella prossimità e nella sollecitudine. Quindi, come accompagnare? Io credo che le risposte al dolore, prima che risposte teoriche, debbano essere risposte pratiche. Non è un caso che Gesù non abbia tenuto nessuna lezione sul dolore. Gesù risponde nella pratica: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”, chiede a Bartimeo. Dunque la risposta al dolore è pratica. E in questo noi cristiani siamo stati all’inizio di una tradizione culturale, che in occidente è diventata prassi anche di chi credente non è. Gli ospedali, questi luoghi dove prendersi cura, nascono in un contesto religioso. Abbiamo una ricca tradizione, che non dobbiamo disperdere, sull’accompagnamento.

Quando oggi parliamo di fine vita, così come di altri temi costitutivi dell’essere umano, le persone fanno riferimento a paradigmi culturali e antropologici differenti. È possibile trovare un punto d’incontro?
È vero. Siamo in presenza di prospettive antropologiche molto differenziate. Questo rende più affascinante per un verso, più difficile per l’altro, il vivere insieme. Ma dietro e dentro queste differenze, queste pluralità, che non vanno cancellate, c’è un “umano comune” o un “antropologico universale”, che possiamo condividere. Come cristiani è partendo da questo umano comune che siamo chiamati a fornire una testimonianza, a entrare in un dibattito, a concorrere alla elaborazione delle leggi, a operare in ogni ambito della vita. Questo è un compito e una sfida.

a cura di Mario Ravasio
L’eutanasia e la nuova cultura della buona morte

È disponibile in comunità la riflessione che Franco Luigi Pizzolato, già docente di Letteratura cristiana all’Università Cattolica di Milano, ha tenuto durante il triduo in commemorazione dei defunti organizzato da alcune parrocchie cittadine. Pizzolato ha diviso la sua proposta in due parti: 1) La buona morte di fronte al dolore e 2) L’eutanasia tra giudizio e misericordia. Nella terza sera del triduo è stata letta da Giovanni Locatelli una parte del romanzo La morte moderna scritto nel 1974 da Carl-Henning Wijkmark (Iperborea, 2008).

Chi è

Maurizio Chiodi, classe 1955, è sacerdote della diocesi di Bergamo, è ordinario di Bioetica presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia a Roma. Docente di Teologia morale presso la Scuola di Teologia Seminario di Bergamo, la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. Il 16 maggio del 2017, per un quinquennio, è stato nominato da papa Francesco membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita. Tra le ultime pubblicazioni ricordiamo Teologia morale fondamentale (Queriniana, 2014), Sergio Colombo uomo della Parola. Antropologia, teologia morale e pratica pastorale, (Edb, 2019), Il cammino dell’esodo e il compimento di Gesù. Esercizi spirituali (Queriniana, 2019) e Dramma, dono, accoglienza. Antropologia e teologia dell’adozione (San Paolo, 2021).